Dal Vangelo secondo Marco (6,45-56)

45Subito [dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù] costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. 46Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. 47Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra. 48Vedendoli però affaticati nel remare, perché avevano il vento contrario, sul finire della notte egli andò verso di loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli. 49Essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono: «È un fantasma!», e si misero a gridare, 50perché tutti lo avevano visto e ne erano rimasti sconvolti. Ma egli subito parlò loro e disse: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 51E salì sulla barca con loro e il vento cessò. E dentro di sé erano fortemente meravigliati, 52perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito.

53Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono. 54Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe 55e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. 56E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati.


Iniziamo il nostro cammino di preparazione immediata al Natale attraverso la tradizionale novena. Riteniamola una «novena speciale» che ci condurrà a un «Natale speciale». In tanti dicono che stiamo vivendo un Natale diverso da quelli già trascorsi. Sarà pure vero. Ma, in realtà, ogni anno liturgico ci introduce nella celebrazione dei misteri della nostra fede in un modo sempre nuovo e sempre caratterizzato da una singolare e inattesa ricchezza. Quindi anche ogni Natale si ripropone a ciascuno di noi, di anno in anno, come un’esperienza inedita e originale.

Questo tempo di “sofferenza planetaria” causato dalla pandemia non può essere colto solo come un limite ma anche come un’opportunità. Tutti ci siamo scoperti fragili e precari, in un’epoca in cui ci si era abituati a pensare che ogni cosa potesse essere programmabile, gestibile e sostenibile attraverso le capacità e gli strumenti umani. Ecco quindi, tra i tanti termini utilizzati in questo periodo, l’emergere proprio del concetto di “precarietà”. Un vocabolo applicato prevalentemente per indicare la carenza di occupazione lavorativa ma anche, in senso più esteso, per dare un nome a una situazione di incertezza e instabilità.

Eppure il termine «precario» deriva dal verbo latino «precor» che con i suoi derivati, come ad esempio «deprecor», significa «pregare, supplicare». Ma nel passaggio alla lingua italiana ha perso il suo senso originario. Il «precator» è colui che implora, prega, supplica per ottenere qualcosa. L’aggettivo «precarius» indica, quindi, qualcosa ottenuta attraverso la preghiera. La precarietà è quella condizione propria di chi sa di non essere sempre e totalmente autosufficiente.

Ecco quindi che il tempo di precarietà deve essere innanzitutto tempo di preghiera, cioè di abbandono fiducioso nelle mani di Dio. E per fare questo dobbiamo vivere la «spiritualità dell’amen».

Noi siamo soliti usare questa espressione ebraica alla fine delle nostre preghiere. L’«amen» invece deve diventare «la preghiera». Come ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, «In ebraico “amen” si ricongiunge alla stessa radice della parola “credere”, aman. Tale radice esprime la solidità, l’affidabilità, la fedeltà. Si capisce allora perché l’“amen” può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi quanto la nostra fiducia in lui» (CCC 1062).

L’amen è il mio atto di fiducia in Dio-Roccia su cui posso poggiarmi con fiducia, su cui scaricare ogni mio peso e inquietudine. L’«amen» è l’antidoto orante alla precarietà intesa come situazione di instabilità, di sfiducia e di sguardo inquieto verso il futuro. Quando tutto frana attorno a me cerco la roccia che è Dio, professando il mio «amen». Quando alle apparenti solidità umane si sostituisce la precarietà di un tempo più duro e incostante il cristiano non dice semplicemente «amen» ma vive il suo «amen» ridando vigore alla sua relazione intima con Dio.

Nel testo di Marco abbiamo letto che i malati «lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati» (Mc 6,56). Bellissima questa scena! Anche la leggerezza del mantello e il passaggio fugace del Signore nella nostra vita ha la stessa solidità e potenza della roccia. Talvolta la presenza di Dio nella nostra esistenza non ci appare come una realtà robusta e stabile, eppure lui passa, e tutto si offre a noi con il suo amore potente che si manifesta anche nell’ondeggiante e solo apparente inconsistenza del bordo delle sue vesti. Se nel nostro cuore si conserva almeno il piccolo desiderio di sfiorare questo mantello, di pronunciare il nostro piccolo e fievole amen, lui è in grado di guarirci e di rimetterci in cammino. Tutto questo perché prima dell’«amen» che noi diciamo a lui c’è il suo «amen», cioè quello che lui dice a noi. Anzi lui è proprio l’«amen di Dio», l’atto di fiducia e di sostegno rivolto a un’umanità fiacca e scoraggiata.

Ci aiutino le parole di Isaia a dire sempre il nostro «amen» e a vivere il tempo della precarietà come un tempo proficuo per la preghiera: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio!» (Is 35,3-4).

Don Giulio Madeddu


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16 dicembre – Tempo di precarietà: è il tempo della preghiera
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