Fratelli e sorelle,
in questa notte santa la Chiesa si ferma, veglia, e contempla un mistero che accade nel silenzio. Una luce si accende nella notte del mondo e ci viene consegnata non come una verità da spiegare o da dimostrare, ma come un evento di vita che ci coinvolge.
È il mistero di Dio che entra nella storia dell’umanità attraverso una famiglia, ristabilendo, nella semplicità delle relazioni più intime, la bellezza originaria della vita.
Come sempre il vangelo della notte di Natale ci consegna l’immagine di una famiglia. Maria e Giuseppe non sono presentati come figure fuori dalla realtà: sono una coppia vera, in cammino, segnata da imprevisti e difficoltà. Un viaggio faticoso, una nascita lontano da casa, la mancanza di un posto dove fermarsi.
Potremmo dire che quella di Nazaret è l’immagine di tante famiglie di ogni tempo. Famiglie che non hanno tutto sotto controllo. Famiglie che fanno i conti con ciò che non avevano previsto. Eppure, proprio lì, Dio non si ferma davanti alle difficoltà dell’uomo. Va oltre. Perché anche dentro ciò che sembra confuso, faticoso, incompiuto, c’è un disegno di Provvidenza che si sta compiendo.
È una verità che non appartiene solo al Vangelo, ma alla sapienza più profonda della nostra umanità.
Un grande scrittore come Alessandro Manzoni l’ha espressa raccontando una storia di due giovani, desiderosi di coronare il loro reciproco amore nel matrimonio, segnata dall’imprevisto e dal dolore.
Nel celebre capitolo ottavo dei Promessi sposi noto come “Addio monti”, Lucia è costretta a lasciare la sua casa, la sua terra, ciò che amava. Il futuro è incerto, perché tutto sembra andare nella direzione sbagliata.
Ed è proprio lì, davanti a una vita che questa giovane aspirante sposa non riesce più a comprendere, che Manzoni affida al narratore queste parole: «Egli (Dio) non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande». È uno dei tanti testi in cui Manzoni fa emergere la “teologia della Provvidenza” a lui tanto cara.
È una frase che sembra scritta nella luce della notte di Natale. Perché anche Maria e Giuseppe sperimentano una “gioia turbata”, non vivono una nascita “perfetta”, ma una nascita reale. Una nascita attraversata dalla fatica, dall’imprevisto, dalla mancanza di posto.
E proprio dentro quella precarietà, dentro gioie sospese o apparentemente macate, Dio prepara qualcosa di infinitamente più grande e provvidenziale: la salvezza. Cioè una vita bella e piena, oltre ogni umana aspettativa.
Quanta fatica c’è, anche per ciascuno di noi, nel “partorire” le scelte importanti della vita. Quanti passaggi obbligati. Quanti ripieghi non scelti. Quante gioie solo intraviste e mai pienamente realizzate. Quanti film della nostra vita che sembravano partire con entusiasmo, con i titoli di apertura già lanciati, ma senza mai arrivare davvero ai titoli di coda.
A volte queste esperienze lasciano ferite profonde nel cuore. Ferite che rischiano di farci smarrire il senso della Provvidenza di Dio, di farci dubitare della sua presenza, di farci pensare che Lui sia lontano proprio nei momenti decisivi.
Eppure, la notte di Natale ci dice che Dio non si ritira davanti alle nostre fatiche, ma entra proprio lì, dentro le scelte sofferte, dentro i cammini interrotti, dentro le attese che non hanno preso la forma che immaginavamo.
Ed è qui che comprendiamo una verità semplice e decisiva: nella nostra vita c’è spazio per Dio se impariamo a farci spazio per gli altri. E anche se è solo un piccolo spazio donato agli altri, proprio lì entra il Signore.
Dio, nel Bambino Gesù, si è fatto piccolo proprio per questo. Perché gli basta poco spazio. Quel tanto che è sufficiente almeno per dare inizio all’incontro. Un semplice spiraglio aperto.
Maria ce lo insegna. Si accontenta di una stalla e di una mangiatoia per far nascere Gesù. Non conta quanto spazio c’è, ma se c’è, anche se poco e apparentemente inadeguato.
Se dovessimo aspettare, per accoglierlo, che la nostra esistenza sia perfetta, ordinata, senza ferite e senza confusione, non lo accoglieremmo mai. Perché c’è un ordine e una pulizia che solo Lui può fare nella nostra vita.
E il Natale ci dice proprio questo: Dio non entra quando tutto è a posto, ma entra per mettere ordine, per ridare senso, per far nascere la vita anche dove non l’avevamo prevista.
Questo orizzonte spirituale ci viene consegnato anche dalla prima lettura, tratta dal profeta Isaia. E’ un testo che nasce in un tempo segnato dalla guerra, dalla paura, dall’oppressione. Non è una pagina scritta in un momento sereno, ma dentro una storia ferita, attraversata dalla violenza e dall’ingiustizia.
Isaia parla a un popolo che cammina nelle tenebre, non a un popolo arrivato, non a un popolo vincente. Eppure annuncia qualcosa di inaudito: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce».
Quella luce non cancella d’un colpo le fatiche, ma le attraversa. Non nasce dalla forza delle armi, ma da un dono inatteso: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio».
E Isaia osa dire qualcosa di ancora più radicale. Annuncia una pace che non è una tregua fragile, ma una trasformazione profonda della storia: «Ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati».
Quanto vorremmo che questa parola si compisse oggi, subito, senza esitazioni, in ogni scenario di guerra che il mondo, in questo tempo, sta attraversando. Viviamo in un mondo in cui sempre più sembra affermarsi l’idea che, per avere la pace, sia necessario armarsi.
Qui, invece, si parla di una pace che nasce quando ciò che produce violenza viene disarmato, quando il rumore delle armi lascia spazio a una vita nuova.
Ma il cuore dell’uomo – oggi come ai tempi di Isaia – sembra incapace di costruire da solo la pace. Ed è per questo che il profeta annuncia un intervento che viene dall’alto: «Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti».
Non sarà soltanto l’uomo a cambiare la storia. È Dio che interviene. Ed è sorprendente il modo in cui lo fa: affidando la pace a un Bambino.
E allora comprendiamo che la mangiatoia di Betlemme non è solo il luogo di una nascita povera, ma il segno di un mondo nuovo che comincia: un mondo in cui la forza non è più quella delle armi, ma quella di un Dio che si fa piccolo per cambiare il cuore dell’uomo.
Fratelli e sorelle,
viviamo questa notte di Natale mentre ci avviciniamo alla conclusione dell’Anno Giubilare, che ci ha accompagnati con un’espressione semplice e profonda: “Pellegrini di speranza”. Non persone arrivate, non persone che hanno tutto chiaro, ma uomini e donne in cammino, come Maria e Giuseppe. Pellegrini che non portano con sé certezze assolute, ma una fiducia che resiste anche quando la strada si fa faticosa.
Essere pellegrini di speranza significa allora questo: continuare a camminare senza chiudere il cuore, imparare a fare spazio, credere che Dio è all’opera anche quando non ne vediamo subito i frutti.
In questa notte di Natale Dio non ci chiede grandi cose. Ci chiede semplicemente di non dirgli di no. Di non chiudere la porta. Perché quando Dio trova una porta aperta, anche appena socchiusa, la speranza rinasce, la pace comincia, e la vita, persino nelle sue fragilità, ritrova la strada verso la sua pienezza.
(Omelia tenuta da don Giulio Madeddu giovedì 25 dicembre 2025, durante la Messa della notte di Natale, presso la chiesa parrocchiale di Santo Stefano in Quartu Sant’Elena)
