Lunedì 3 gennaio 2022 – Memoria del Santissimo Nome di Gesù

Parrocchia S. Barbara, Sinnai

Omelia del Vescovo Giuseppe Baturi per il trigesimo della morte di don Alberto Pistolesi


1Gv 2,29-3,6
Gv 1,29-34

Un mese fa eravamo storditi dall’emozione perla morte improvvisa di don Alberto, e l’emozione abbiamo saputo esprimerla proprio dentro questa Chiesa e nella preghiera come bisogno di salvezza, molto semplicemente. L’evento della morte contempla in sé anche, inevitabilmente, un’esigenza di salvezza, perché istintivamente l’uomo reagisce, protesta quasi, di fronte alla possibilità del nulla, per sé, le persone che ama e per quelle che hanno segnato la sua vita. Dobbiamo tornare sempre a questa esigenza; man mano che il tempo passa è necessario cogliere che dentro quell’emozione, quel dolore, quella preghiera, stava un grido a Dio di salvezza. Oggi celebriamo il Santissimo nome di Gesù, che vuol dire «Dio salva», e quel grido ci torna come insegnamento profondo.

La salvezza che speriamo è descritta nella prima lettura: noi vedremo Dio. «Sappiamo che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2). La salvezza non può che riguardare il destino dell’uomo, il fine della sua intera parabola, e la Chiesa ci offre la certezza, nella fede del Signore Risorto, che il termine della vita è la visione di Dio, la trasformazione del nostro essere, perché saremo simili a Lui. Non prevale, lo affermiamo per Don Alberto come per i nostri cari, e non deve prevalere, il dolore del distacco ma la certezza che la persona amata vive qualcosa di grande, infinito, che si compie in Dio la ragione per cui è nata. Siamo nati per questo. Abbiamo la certezza di questo destino buono, la ferma speranza che l’esistenza non si consumi nel nulla ma venga chiamata da Dio a un compimento altrimenti per noi impossibile: saremo simili a Lui perché lo vedremo così come Egli è. Tutta la vita serve a purificare gli occhi per poterLo vedere, a purificare il cuore per poterLo amare in modo definitivo. A un mese dalla morte di don Alberto, recuperiamo anzitutto la consapevolezza della fede. Lo straordinario impeto che abbiamo vissuto in quei giorni e che non si arresta, è anzitutto domanda di Dio, la domanda cioè della salvezza della nostra vita e della nostra storia, la domanda di un senso (direzione) di tutto ciò che facciamo.

Un altro passaggio vorrei proporvi: noi abbiamo conosciuto la ricchezza di tutto questo grazie a dei testimoni. Il nome di Gesù, il nome del Dio che salva, lo abbiamo riconosciuto negli occhi dei salvati, nella testimonianza di uomini che ci hanno aiutato a comprendere ciò che Dio opera. Abbiamo sentito nel Vangelo: «E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Quanto detto da Giovanni Battista vale anche per Don Alberto, e per questo eleviamo a Dio il grazie per la sua vita. Ha testimoniato quel che ha visto, e noi siamo stati segnati dal suo passaggio proprio perché la sua è stata la vita di un testimone. Il testimone non richiama a sé stesso ma a un Altro, a Colui che illumina la sua vita e che nelle sue parole e gesti appare e si comunica. È il senso della nostra vita sacerdotale, è il senso dell’essere padre e madre, è il senso dell’amicizia, della vita consacrata: essere testimoni dell’amore che contempliamo. Ho visto e ho testimoniato. Tutto quello che è stato raccontato di don Alberto in questi giorni documenta che ciò che segna la vita degli uomini è la sincerità della nostra testimonianza, l’autenticità nel nostro “vedere” l’opera di Dio e del raccontarla a tutti. Come? Con quali strumenti? Ciascuno con la propria vita, con la propria umanità. Come facciamo a raccontare un Dio che ama se non amiamo? Come facciamo a raccontare un Dio che accoglie e perdona se non nell’accoglienza e nel perdono che incarniamo nel rapporto con gli altri? Come facciamo a parlare di un Dio che chiama alla comunione se la nostra vita non tende alla comunione con tutti, anche con chi è diverso da noi e pensa in modo differente? Ecco, noi siamo stati segnati da Don Alberto perché egli ha vissuto tra noi come testimone, e la sua umanità ha indicato la salvezza di Dio. Facciamone frutto nella gratitudine, nella preghiera e anche nel desiderio di imitare, come esorta a fare la Lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede» (13,7). Tutta la nostra commozione ora deve poter diventare imitazione della fede, non del “modo di essere” ma della “sostanza dell’essere”, non “nel modo di fare” ma della “ragione del fare”, del perché si vive, del perché e come ci si rapporta agli altri nel Signore Risorto.

Osserviamo ancora Giovanni Battista che prima “non conosceva” mentre poi dichiara di aver visto e testimoniato. La speranza nella quale siamo salvati si impara dentro un cammino. È come se don Alberto adesso chiedesse a tutti di camminare. Camminiamo, perché ciò che vale come speranza davanti alla morte valga come speranza per la vita, perché in vita e morte siamo del Signore (cf. Rom 14,8), chiamati sempre a dargli gloria qualsiasi cosa facciamo, sia che mangiamo sia che beviamo (cf. 1Cor 10,31), nell’educazione dei figli come nell’impegno politico, nell’impegno sociale e di carità come nella solidarietà familiare o nell’amicizia fedele. L’intensità di sentimenti che abbiamo vissuto costituisce una grande esortazione a camminare per imparare questa speranza, sapendo che non camminiamo veramente se la speranza non tocca davvero ciò che abbiamo a cuore, le nostre immagini e i desideri, gli affetti, le nostre intelligenze, la preoccupazione per il futuro. Cristo salva la vita entrando in contatto con ciò che abbiamo a cuore.

Un’ultima osservazione mi permetto di fare come profitto da trarre da tutte le preghiere intense che in questo luogo si sono elevate a Dio. Come è possibile questo cammino dell’uomo se non dentro l’abbraccio della Chiesa? Per questo ringrazio i sacerdoti della forania qui presenti che hanno voluto organizzare questo momento di preghiera, e per questo ringrazio voi. Tutta la Diocesi è stata edificata da questa comunità che ha dato testimonianza di una speranza più grande del dolore e della morte. Il Signore salva in un abbraccio, in una compagnia, dentro un’amicizia, salva in una rete di rapporti che chiamiamo Chiesa, edificata dall’Eucaristia, vivificata dalla Parola di Dio e intessuta di rapporti fraterni. La fraternità, la capacità cioè di accogliere l’altro, di sentire il suo cammino come parte del nostro, è uno dei lasciti dell’insegnamento e della testimonianza di Don Alberto da accogliere nella libertà, perché mentre l’emozione ci spinge quasi spontaneamente a compiere dei gesti, dopo deve prevalere la decisione libera di rispondere.

Il Signore chiama ciascuno di noi anche in questa circostanza e continua a ripeterci: “Tu seguimi”.

Omelia del Vescovo per il trigesimo di don Alberto a Sinnai
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